La rubrica dei meta-scrittori

Il primo giorno di un condannato a morte

L’avevano catturato mentre nuotava senza coscienza in un fiume affollato, non sapeva perché. L’avevano rinchiuso, ma non sapeva dove. Poi venne il giorno in cui si ritrovò a testa in giù, senza sapere come. Non sapeva un sacco di cose, per la verità: da quanto e da quando fosse lì, quanto ci sarebbe rimasto; e, soprattutto, che cosa sarebbe successo dopo…
Aveva la certezza che quella fosse la lunga anticamera della sua esecuzione, un lento stillicidio messo a punto con sadica dovizia, senza lasciare nulla al caso. Da tempo aveva capito di essere osservato dall’esterno, monitorato, controllato con morbosa curiosità, qualsiasi cosa facesse, come un caso clinico, un fenomeno da baraccone o uno strano animale allo zoo. Doveva essere stato drogato. Intuiva che in un qualche passato difficilmente collocabile nel tempo, prossimo o remoto, fosse vissuto, fosse esistito, forse allo stadio di organismo arcaico, larvale, primitivo; ma era come se di tutta la sua vita antecedente gli si fosse cancellato il ricordo. Da quando aveva memoria, da quando cioè si era svegliato in un torpore indistinto, come dopo una sbornia, si era ritrovato in una cella angusta, sviluppata in altezza quel tanto che bastava a impedirgli di stare sia completamente seduto, sia totalmente eretto, una sorta di fillette di Luigi XI a causa della quale era obbligato, per scomodo e calcolato compromesso, ad assumere una posizione raggomitolata, schiena curva e testa a sfiorare le ginocchia (visto dall’esterno, ricordava vagamente un ippocampo di profilo). Una cella così ridotta, che la distanza delle pareti (pareti, a onor del vero, ben riscaldate: condizione particolarmente favorevole, dal momento che era nudo, e abbastanza elastiche da adattarsi alle sue dimensioni, in costante aumento, data la sua forzata inattività) coincideva a malapena con la larghezza delle sue spalle.
La cella era immersa nel buio assoluto, al punto che i suoi occhi si erano sigillati ermeticamente, inutili come quelli di certi troglobi, e come i loro destinati, secondo lui, a involvere nel tempo, fino a scomparire. Non che potesse fare granché: la sua libertà di movimento era molto limitata, e l’oscurità contribuiva a fargli temere tutto. Era una sorta di tortura bianca al contrario. Là fuori c’era qualcuno che lo spiava, ma per lui non esisteva altro che la sua cella, quasi del tutto insonorizzata. Senza poter vedere, né sentire, né toccare nulla, la sua diventava ogni giorno di più un’esperienza desensibilizzata, di per sé non dolorosa, ma in grado di condurre all’alienazione. Per sua stessa natura, poi, l’isolamento protratto è deleterio: chi è riflessivo, rischia di sprofondare in se stesso fino a non poter più risalire; chi è superficiale, cercherà di scavare, costretto a rimanere solo, in una profondità inesistente.
La stessa sorte degli occhi sarebbe poi capitata, a suo avviso, alle orecchie, che già si erano velate di una membrana per ripararle dal fluido che riempiva totalmente la cella, e nel quale viveva nel costante terrore di annegarvi, al punto che, per un certo periodo, in risposta alle sue preghiere, aveva sentito le sue mani palmarsi come zampe di un gabbiano; poi, chissà perché, quegli utili lembi cutanei si erano ritirati come una marea, lasciando le dita libere di muoversi, senza capacità natatorie. Naso e bocca erano così resi inservibili; gusto e olfatto gli erano sconosciuti, al punto che spesso si chiedeva se e quando avrebbe mai assaggiato o annusato qualcosa. Attraverso quel filtro liquido, i rumori esterni, quei pochi che riuscivano a superare la barriera insonorizzata della cella, gli giungevano confusi, distanti, alterati, come i suoni riverberati da un distorsore acustico. Ma a quei rumori si aggrappava disperatamente, unico canale sensoriale di comunicazione con quella dimensione altra, della quale non aveva più, o non aveva ancora, memoria. Gli sembrava di udire voci umane, maschili e femminili, adulte, giovani e giovanissime, alcune serie, altre posate, altre ancora allegre, a seconda. Talvolta sentiva picchiettare sulle pareti esterne. Ma quei tonfi misteriosi, amplificati dalle vibrazioni del liquido, lo raggiungevano notte e giorno – posto che, nella sua oscurità permanente, il giorno, la notte e l’effettivo scorrere del tempo erano concetti molto relativi, che si uniformavano in un presente continuo e indefinito – con la violenza di pesanti martellate contro una campana sott’acqua.
Di tanto in tanto cercava di ribellarsi, di muoversi, dibattendosi e scalciando: tentativi infruttuosi che lo portavano inevitabilmente a ripiombare nella posizione iniziale, ridotto alla quasi completa immobilità, stretto com’era in una sorta di pellicola appiccicosa, di camicia di forza che lo avvolgeva da capo a piedi. Pure, restava stupefatto dalla cura prodigata dai suoi invisibili aguzzini affinché potesse conservarsi in vita (e in buono stato) per tutto il tempo che avessero deciso. Era per lui il segno evidente che lo stavano mantenendo vivo per qualcosa di peggiore tenuto in serbo come gran finale. Pur immerso dalla testa ai piedi nel fluido, la pellicola gli impediva di bere, e quindi di annegare. Non potendo né mangiare, né respirare, il nutrimento e l’adeguato apporto di ossigeno gli erano assicurati da un tubo flessibile piantato nel ventre, in comunicazione diretta coi visceri, che finiva in una struttura su una parete della cella, evidentemente il passavivande ideato con acume attraverso cui non solo il condannato poteva ricevere il necessario, sotto forma di miscela liquida, ma anche espellere ciò che produceva come scarto, dal momento che anche funzioni come urinare e defecare gli erano interdette. Quel che si domandava era quanto avrebbe potuto resistere. Anche perché, come era prevedibile, questo sistema di alimentazione, come tutto il resto del supplizio, nascondeva delle insidie. I pasti arrivavano con dosi e tempistiche imprevedibili e, oltre a non accorgersi del loro arrivo, gli era impossibile frazionarli, rifiutarli, anticiparli o procrastinarli. Altra fonte di angoscia, che si sommava a quella dell’annegamento e della claustrofobia, era la composizione di quei pasti: e se uno di essi fosse stato avvelenato? Se fossero stati avvelenati tutti, con dosi subletali, in modo da dare tossicità da accumulo, manifestandosi tutta in una volta dopo lunga esposizione? Un perverso mitridatismo volto non a immunizzarlo, ma ad intossicarlo con spietata lentezza, come un’asbestosi industriale. Non potendo scegliere se nutrirsi o no, non potendo vedere ciò che gli veniva somministrato, era alla completa mercé dei suoi ignoti torturatori, che avrebbero potuto, una volta o l’altra, inserire per divertimento una tossina nella miscela, cosa di cui aveva avuto il sospetto in ripetute occasioni; o ancora, avrebbero potuto sospendere i pasti, facendolo morire di fame, o asfissiarlo diminuendo la percentuale di ossigeno. Il rischio di asfissia era reso concreto dal tubo stesso, che, grazie alla sua lunghezza, alla sua flessibilità e alle ridottissime dimensioni della cella, riusciva con facilità ad arrotolarsi attorno al suo collo e ad avviarlo lentamente alla cianosi, all’incoscienza da anossia. Ed era già capitato un paio di volte.
Poi venne il giorno in cui si ritrovò a testa in giù. Ancora una volta, non sapeva perché, ma una forza misteriosa, come un istinto, l’aveva costretto a girarsi di centottanta gradi in senso cranio-sacrale, col risultato che ora la sua testa, sempre sfiorando le ginocchia in posizione raggomitolata, veniva a trovarsi a contatto col pavimento della cella. Dalla nuova prospettiva poteva toccare, proprio al centro del pavimento, una specie di strettissimo chiusino cementato con del mastice, del muco rappreso o forse del sangue coagulato: terrorismo psicologico, macabro e intimidatorio memento utile a tenere il suppliziato in costante angoscia. Da quel chiusino, ipotizzava, era stata allagata la cella, pompando il fluido dall’esterno e poi sigillandola con quella sostanza organica, quella colla a presa rapida di dubbia e sospetta provenienza. Aveva scartato l’ipotesi che fosse arrivato dai due forami simmetrici verso la sommità del soffitto, dove le pareti si incurvavano fino a unirsi in una cupola piatta, perché quei forami non erano provvisti né di valvole, né di portelli per isolare la cella. Grazie al mastice del chiusino, invece, la cella poteva essere assimilata a una sorta di vasca da bagno cilindrica e verticale, vagamente svasata verso l’alto, un tronco di cono rovesciato, come l’Inferno dantesco, con Lucifero a fare da tappo.
Alle fasi di delirio seguivano fasi di relativa quiete mentale, in cui riusciva a farsi strada persino una sorta di ironia. Una volta abituatosi alla claustrofobia, al buio, all’isolamento, alla quasi totale immobilità, all’alimentazione e alla respirazione forzata, alla posizione capovolta e a tutte le pressioni derivanti dalla possibilità di essere avvelenato, asfissiato, soffocato, di annegare, di morire di inedia, non poteva dire – se avesse potuto parlare – di star male: consolante, dopo tutto. Non provava dolori fisici, e quanto a quelli morali, non ricordava di aver mai avuto una coscienza. Quasi tutte le torture erano psicologiche, e lo sfinivano sul lungo periodo, come per una città sotto assedio, mettendo alla prova la sua resistenza – sebbene, anche in questo caso, le capacità di adattamento insite nell’uomo (o la follia) avessero agito sulla sua mente come sul suo corpo, allentando la continua tensione dell’incognita infausta. L’abitudine gli aveva reso sopportabile quella spada di Damocle appesa chissà quando, chissà da chi e chissà perché, e destinata a rimanere lì chissà ancora per quanto, protratta indefinitamente, come per quei terminali lungodegenti che, avendo raggiunto una certa insensibilità al dolore psicofisico e una pur precaria stabilità – la stabilità dei vecchi vasi di cristallo, che non si rompono finché nessuno li tocca –, riescono a trasmettere ai loro congiunti una parvenza di benessere, in grazia del quale ricominciano poco a poco a trattarli da persone normali, sgridandoli per inezie e non tenendo più conto della loro fragilità, salvo poi pentirsi e vergognarsene quando è troppo tardi. Se non fosse stato per il mistero che avvolgeva il suo destino, avrebbe potuto dire – sempre se avesse potuto parlare – di stare quasi bene. Ecco perché continuava ad avere la sensazione che il peggio dovesse ancora venire: non sapendo che cosa sarebbe accaduto dopo, sempre ammesso che ci sarebbe stato (era questa per lui la più insostenibile e la più snervante delle torture: non sapere), non avrebbe saputo dire se e quando quell’equilibrio si sarebbe rotto, e se la sua rottura avrebbe rappresentato un bene o un male. A un certo punto cominciò a chiedersi, nel caso fosse morto lì dentro, se e chi lo avrebbe estratto e che fine avrebbe fatto il suo corpo. Forse sarebbe stata questa la sua fine: sarebbe morto lì dentro, e l’attesa altro non era che l’attesa della fine. Cominciò a chiedersi se, fuori dalla cella, da qualche parte, ci fossero altri condannati, forse in altre celle, copie esatte della sua, e quanti fossero, e perché fossero stati rinchiusi; se ogni cella ospitasse, come nel suo caso, un condannato, o se ne avessero fabbricati modelli biposto o più spaziosi ancora. Ma nella sua percezione di presente indefinito, e quindi di vita indefinita, il concetto di morte gli sembrava irreale: era lì, vivo: perché non avrebbe più dovuto vivere? Cominciò quindi a chiedersi se esistesse una morte dopo la vita, e una vita dopo la morte – concetti che, però, invariabilmente gli sfuggivano e gli rimanevano sconosciuti, inconoscibili come i suoi giudici e i suoi carcerieri. Perché era lì? Che cosa aveva fatto? Che cosa non aveva fatto? Che cosa avevano fatto i suoi antenati, le cui colpe lui doveva ora espiare in virtù di qualche nemesi con un senso alterato della giustizia? Forse era lì per errore. Forse per compiacere qualcuno. O forse perché qualcuno lo aveva voluto.
Improvvisamente, le pareti della cella ebbero un sussulto: come se fossero state vive, in preda a un brivido, ad un crampo, si contrassero attorno a lui. Il fenomeno lo lasciò stupito, ma non lo turbò particolarmente, tanto che tornò alle sue riflessioni. Certe volte provava a fare il punto della situazione. Isolato dal mondo, la sua unica realtà era quella che lo circondava, il suo mondo iniziava e finiva in quella cella, immobilizzato e senza possibilità di fuga, come l’uomo della caverna di Platone, e intuiva che vi fosse una realtà maggiore che inglobava la sua, una realtà più “reale”, che avrebbe fatto figurare la sua come la dimensione inconscia della vita, sospesa in un limbo di oblio e protetta da quel calore che in seguito non avrebbe più ritrovato, se non in brevi istanti di intenso, estatico piacere; una realtà che arrivava a lui non in forma di ombre, come nella caverna di Platone, ma di suoni, o meglio di rumori, di voci dalle quali cercava di dedurre la forma, il volto, l’identità di coloro che restavano, per lui, gli artefici senza nomi del suo destino, dèi lucreziani distanti, a guardia di quella realtà di cui la sua era probabilmente un infimo lacerto, un tassello insignificante, come dovette apparire all’uomo tutta la sua gloriosa stirpe di fronte alle scoperte di Copernico e Galileo, quando si scoprì che ben altri mondi esistevano oltre alla Terra e che il Sole non esisteva per scaldare solo lei.
Questa volta i crampi furono due, a breve distanza, e più forti del precedente. Si sentì schiacciare, dall’alto in basso, i piedi, le gambe e le braccia. Poco dopo, una terza, una quarta, una quinta raffica di crampi arrivò a comprimergli la testa. La certezza sulla quale aveva finora riposato, la speranza che aveva alimentato quietando a forza le paure, che quella stasi sopportabile di cose, cioè, potesse prolungarsi all’infinito, si sfaldò pezzo per pezzo nel giro di poche ore o pochi minuti – non avrebbe saputo dire, se avesse potuto parlare – insieme al coagulo di sangue e muco che otturava il chiusino: in breve, quella sorta di propoli si disgregò e cadde attraverso il foro del quale intuiva la presenza. Il fluido che per mesi l’aveva sommerso defluì attraverso quel foro, assieme alla pellicola, e per la prima volta la sensazione di non avere più attorno né quell’involucro flessibile, quella muta aderente che l’aveva protetto dal fluido, né il fluido stesso, gli parve peggiore di ciò che aveva passato fino a quel momento. Alle vecchie paure si era abituato: a queste nuove, che lo assalivano con la potenza della tragedia inaspettata e incontrollabile, non sapeva reagire, e restava paralizzato, incapace di muovere un muscolo. Un cataclisma feroce stava distruggendo la cella. Frammenti sempre maggiori delle pareti si staccavano e cadevano, risucchiati dal foro microscopico là in fondo, sospintivi da crampi sempre più forti, che gli stritolavano in morse di dolore la testa e il corpo. I crampi si erano trasformati man mano in convulsioni durature, in spasmi tetanici che lo stringevano come spire di un boa. Gli sembrava che gli occhi, il cuore, lo stomaco e l’intestino dovessero da un momento all’altro schizzargli fuori dal corpo; la testa era compressa verso il fondo della cella, e premeva contro il foro nel quale tutto pareva finire, come in un buco nero, senza più uscirne, o forse uscendo da qualche altra parte governata da uno spazio-tempo alternativo, in quella realtà esterna o in un universo parallelo.
D’improvviso capì: il supplizio ultimo escogitato dal boia sovrano del suo carcere sarebbe stato di farlo passare, spappolandolo, attraverso quel minuscolo foro, a forza di contrazioni e convulsioni. Non un supplizio veloce, quindi, ma lento, crudele, che ormai stava durando da alcune ore. Tutto quel tempo a nutrirlo, a farlo crescere in una gabbia strettissima, come un’oca allevata per il foie gras, aveva avuto come unico scopo l’ingigantire fino all’inimmaginabile le sue sofferenze durante la fuoriuscita. La sua testa continuava a premere contro quel foro, come se tante mani lo stessero spingendo verso il basso, o come se una mano enorme da fuori stesse strizzando la cella come una spugna. Era come far passare un melone attraverso una buca da golf. Lo spasmo attorno a lui accennava a diminuire, anzi, per quanto incredibile, continuava ad aumentare; ed aumentò a tal segno che, inspiegabilmente, inaspettatamente, la buca da golf cedette. Per quanto minima, scoprì che era dotata di un’elasticità sufficiente a farla allargare e a richiudersi attorno alle sue tempie, comprimendogli il cervello e permettendo a tutto il resto del corpo di passare, seppure fatica, un millimetro per volta. Sentì nitidamente il suo cranio deformarsi, disarticolarsi, appiattirsi. Poi fu la volta delle spalle, che si piegarono fino a toccarsi davanti allo sterno. Il suo corpo stava lentamente sparendo dentro quel buco che per mesi aveva supposto essere nient’altro che l’entrata del fluido, e che ora scopriva essere la sua uscita, cacciato e per così dire espulso dai ritmici crampi nei quali ancora le pareti della cella si contorcevano attorno e dietro di lui. Ma anziché finire smembrato come si aspettava, nell’osservanza delle più crudeli esecuzioni medievali e delle leggi più elementari della fisica, scoprì che, attraverso quel restringimento apparentemente impraticabile, veniva incastrato in uno strettissimo canale scuro, viscido, sanguinolento, che proseguiva l’opera di schiacciamento iniziata dal chiusino elastico, attraverso cui era passato ormai gran parte del suo corpo.
Improvvisamente il canale terminò. Sentì un gran freddo, e si mise a tremare. Di colpo la testa non più tenuta sotto pressione e libera di muoversi, gli parve espandersi senza controllo, come il resto del suo corpo. Per la prima volta l’aria entrava dolorosamente nei suoi polmoni e l’atto respiratorio gli venne istintivo e facile, come se l’avesse praticato da sempre. L’ultima cosa che pensò, o la prima, fu che stava andando verso un supplizio ancora peggiore e infinitamente più lungo; forse anche per questo si abbandonò a un lungo, straziante pianto liberatorio.
Il primo giorno di un condannato a morte

L’avevano catturato mentre nuotava senza coscienza in un fiume affollato, non sapeva perché. L’avevano rinchiuso, ma non sapeva dove. Poi venne il giorno in cui si ritrovò a testa in giù, senza sapere come. Non sapeva un sacco di cose, per la verità: da quanto e da quando fosse lì, quanto ci sarebbe rimasto; e, soprattutto, che cosa sarebbe successo dopo…
Aveva la certezza che quella fosse la lunga anticamera della sua esecuzione, un lento stillicidio messo a punto con sadica dovizia, senza lasciare nulla al caso. Da tempo aveva capito di essere osservato dall’esterno, monitorato, controllato con morbosa curiosità, qualsiasi cosa facesse, come un caso clinico, un fenomeno da baraccone o uno strano animale allo zoo. Doveva essere stato drogato. Intuiva che in un qualche passato difficilmente collocabile nel tempo, prossimo o remoto, fosse vissuto, fosse esistito, forse allo stadio di organismo arcaico, larvale, primitivo; ma era come se di tutta la sua vita antecedente gli si fosse cancellato il ricordo. Da quando aveva memoria, da quando cioè si era svegliato in un torpore indistinto, come dopo una sbornia, si era ritrovato in una cella angusta, sviluppata in altezza quel tanto che bastava a impedirgli di stare sia completamente seduto, sia totalmente eretto, una sorta di fillette di Luigi XI a causa della quale era obbligato, per scomodo e calcolato compromesso, ad assumere una posizione raggomitolata, schiena curva e testa a sfiorare le ginocchia (visto dall’esterno, ricordava vagamente un ippocampo di profilo). Una cella così ridotta, che la distanza delle pareti (pareti, a onor del vero, ben riscaldate: condizione particolarmente favorevole, dal momento che era nudo, e abbastanza elastiche da adattarsi alle sue dimensioni, in costante aumento, data la sua forzata inattività) coincideva a malapena con la larghezza delle sue spalle.
La cella era immersa nel buio assoluto, al punto che i suoi occhi si erano sigillati ermeticamente, inutili come quelli di certi troglobi, e come i loro destinati, secondo lui, a involvere nel tempo, fino a scomparire. Non che potesse fare granché: la sua libertà di movimento era molto limitata, e l’oscurità contribuiva a fargli temere tutto. Era una sorta di tortura bianca al contrario. Là fuori c’era qualcuno che lo spiava, ma per lui non esisteva altro che la sua cella, quasi del tutto insonorizzata. Senza poter vedere, né sentire, né toccare nulla, la sua diventava ogni giorno di più un’esperienza desensibilizzata, di per sé non dolorosa, ma in grado di condurre all’alienazione. Per sua stessa natura, poi, l’isolamento protratto è deleterio: chi è riflessivo, rischia di sprofondare in se stesso fino a non poter più risalire; chi è superficiale, cercherà di scavare, costretto a rimanere solo, in una profondità inesistente.
La stessa sorte degli occhi sarebbe poi capitata, a suo avviso, alle orecchie, che già si erano velate di una membrana per ripararle dal fluido che riempiva totalmente la cella, e nel quale viveva nel costante terrore di annegarvi, al punto che, per un certo periodo, in risposta alle sue preghiere, aveva sentito le sue mani palmarsi come zampe di un gabbiano; poi, chissà perché, quegli utili lembi cutanei si erano ritirati come una marea, lasciando le dita libere di muoversi, senza capacità natatorie. Naso e bocca erano così resi inservibili; gusto e olfatto gli erano sconosciuti, al punto che spesso si chiedeva se e quando avrebbe mai assaggiato o annusato qualcosa. Attraverso quel filtro liquido, i rumori esterni, quei pochi che riuscivano a superare la barriera insonorizzata della cella, gli giungevano confusi, distanti, alterati, come i suoni riverberati da un distorsore acustico. Ma a quei rumori si aggrappava disperatamente, unico canale sensoriale di comunicazione con quella dimensione altra, della quale non aveva più, o non aveva ancora, memoria. Gli sembrava di udire voci umane, maschili e femminili, adulte, giovani e giovanissime, alcune serie, altre posate, altre ancora allegre, a seconda. Talvolta sentiva picchiettare sulle pareti esterne. Ma quei tonfi misteriosi, amplificati dalle vibrazioni del liquido, lo raggiungevano notte e giorno – posto che, nella sua oscurità permanente, il giorno, la notte e l’effettivo scorrere del tempo erano concetti molto relativi, che si uniformavano in un presente continuo e indefinito – con la violenza di pesanti martellate contro una campana sott’acqua.
Di tanto in tanto cercava di ribellarsi, di muoversi, dibattendosi e scalciando: tentativi infruttuosi che lo portavano inevitabilmente a ripiombare nella posizione iniziale, ridotto alla quasi completa immobilità, stretto com’era in una sorta di pellicola appiccicosa, di camicia di forza che lo avvolgeva da capo a piedi. Pure, restava stupefatto dalla cura prodigata dai suoi invisibili aguzzini affinché potesse conservarsi in vita (e in buono stato) per tutto il tempo che avessero deciso. Era per lui il segno evidente che lo stavano mantenendo vivo per qualcosa di peggiore tenuto in serbo come gran finale. Pur immerso dalla testa ai piedi nel fluido, la pellicola gli impediva di bere, e quindi di annegare. Non potendo né mangiare, né respirare, il nutrimento e l’adeguato apporto di ossigeno gli erano assicurati da un tubo flessibile piantato nel ventre, in comunicazione diretta coi visceri, che finiva in una struttura su una parete della cella, evidentemente il passavivande ideato con acume attraverso cui non solo il condannato poteva ricevere il necessario, sotto forma di miscela liquida, ma anche espellere ciò che produceva come scarto, dal momento che anche funzioni come urinare e defecare gli erano interdette. Quel che si domandava era quanto avrebbe potuto resistere. Anche perché, come era prevedibile, questo sistema di alimentazione, come tutto il resto del supplizio, nascondeva delle insidie. I pasti arrivavano con dosi e tempistiche imprevedibili e, oltre a non accorgersi del loro arrivo, gli era impossibile frazionarli, rifiutarli, anticiparli o procrastinarli. Altra fonte di angoscia, che si sommava a quella dell’annegamento e della claustrofobia, era la composizione di quei pasti: e se uno di essi fosse stato avvelenato? Se fossero stati avvelenati tutti, con dosi subletali, in modo da dare tossicità da accumulo, manifestandosi tutta in una volta dopo lunga esposizione? Un perverso mitridatismo volto non a immunizzarlo, ma ad intossicarlo con spietata lentezza, come un’asbestosi industriale. Non potendo scegliere se nutrirsi o no, non potendo vedere ciò che gli veniva somministrato, era alla completa mercé dei suoi ignoti torturatori, che avrebbero potuto, una volta o l’altra, inserire per divertimento una tossina nella miscela, cosa di cui aveva avuto il sospetto in ripetute occasioni; o ancora, avrebbero potuto sospendere i pasti, facendolo morire di fame, o asfissiarlo diminuendo la percentuale di ossigeno. Il rischio di asfissia era reso concreto dal tubo stesso, che, grazie alla sua lunghezza, alla sua flessibilità e alle ridottissime dimensioni della cella, riusciva con facilità ad arrotolarsi attorno al suo collo e ad avviarlo lentamente alla cianosi, all’incoscienza da anossia. Ed era già capitato un paio di volte.
Poi venne il giorno in cui si ritrovò a testa in giù. Ancora una volta, non sapeva perché, ma una forza misteriosa, come un istinto, l’aveva costretto a girarsi di centottanta gradi in senso cranio-sacrale, col risultato che ora la sua testa, sempre sfiorando le ginocchia in posizione raggomitolata, veniva a trovarsi a contatto col pavimento della cella. Dalla nuova prospettiva poteva toccare, proprio al centro del pavimento, una specie di strettissimo chiusino cementato con del mastice, del muco rappreso o forse del sangue coagulato: terrorismo psicologico, macabro e intimidatorio memento utile a tenere il suppliziato in costante angoscia. Da quel chiusino, ipotizzava, era stata allagata la cella, pompando il fluido dall’esterno e poi sigillandola con quella sostanza organica, quella colla a presa rapida di dubbia e sospetta provenienza. Aveva scartato l’ipotesi che fosse arrivato dai due forami simmetrici verso la sommità del soffitto, dove le pareti si incurvavano fino a unirsi in una cupola piatta, perché quei forami non erano provvisti né di valvole, né di portelli per isolare la cella. Grazie al mastice del chiusino, invece, la cella poteva essere assimilata a una sorta di vasca da bagno cilindrica e verticale, vagamente svasata verso l’alto, un tronco di cono rovesciato, come l’Inferno dantesco, con Lucifero a fare da tappo.
Alle fasi di delirio seguivano fasi di relativa quiete mentale, in cui riusciva a farsi strada persino una sorta di ironia. Una volta abituatosi alla claustrofobia, al buio, all’isolamento, alla quasi totale immobilità, all’alimentazione e alla respirazione forzata, alla posizione capovolta e a tutte le pressioni derivanti dalla possibilità di essere avvelenato, asfissiato, soffocato, di annegare, di morire di inedia, non poteva dire – se avesse potuto parlare – di star male: consolante, dopo tutto. Non provava dolori fisici, e quanto a quelli morali, non ricordava di aver mai avuto una coscienza. Quasi tutte le torture erano psicologiche, e lo sfinivano sul lungo periodo, come per una città sotto assedio, mettendo alla prova la sua resistenza – sebbene, anche in questo caso, le capacità di adattamento insite nell’uomo (o la follia) avessero agito sulla sua mente come sul suo corpo, allentando la continua tensione dell’incognita infausta. L’abitudine gli aveva reso sopportabile quella spada di Damocle appesa chissà quando, chissà da chi e chissà perché, e destinata a rimanere lì chissà ancora per quanto, protratta indefinitamente, come per quei terminali lungodegenti che, avendo raggiunto una certa insensibilità al dolore psicofisico e una pur precaria stabilità – la stabilità dei vecchi vasi di cristallo, che non si rompono finché nessuno li tocca –, riescono a trasmettere ai loro congiunti una parvenza di benessere, in grazia del quale ricominciano poco a poco a trattarli da persone normali, sgridandoli per inezie e non tenendo più conto della loro fragilità, salvo poi pentirsi e vergognarsene quando è troppo tardi. Se non fosse stato per il mistero che avvolgeva il suo destino, avrebbe potuto dire – sempre se avesse potuto parlare – di stare quasi bene. Ecco perché continuava ad avere la sensazione che il peggio dovesse ancora venire: non sapendo che cosa sarebbe accaduto dopo, sempre ammesso che ci sarebbe stato (era questa per lui la più insostenibile e la più snervante delle torture: non sapere), non avrebbe saputo dire se e quando quell’equilibrio si sarebbe rotto, e se la sua rottura avrebbe rappresentato un bene o un male. A un certo punto cominciò a chiedersi, nel caso fosse morto lì dentro, se e chi lo avrebbe estratto e che fine avrebbe fatto il suo corpo. Forse sarebbe stata questa la sua fine: sarebbe morto lì dentro, e l’attesa altro non era che l’attesa della fine. Cominciò a chiedersi se, fuori dalla cella, da qualche parte, ci fossero altri condannati, forse in altre celle, copie esatte della sua, e quanti fossero, e perché fossero stati rinchiusi; se ogni cella ospitasse, come nel suo caso, un condannato, o se ne avessero fabbricati modelli biposto o più spaziosi ancora. Ma nella sua percezione di presente indefinito, e quindi di vita indefinita, il concetto di morte gli sembrava irreale: era lì, vivo: perché non avrebbe più dovuto vivere? Cominciò quindi a chiedersi se esistesse una morte dopo la vita, e una vita dopo la morte – concetti che, però, invariabilmente gli sfuggivano e gli rimanevano sconosciuti, inconoscibili come i suoi giudici e i suoi carcerieri. Perché era lì? Che cosa aveva fatto? Che cosa non aveva fatto? Che cosa avevano fatto i suoi antenati, le cui colpe lui doveva ora espiare in virtù di qualche nemesi con un senso alterato della giustizia? Forse era lì per errore. Forse per compiacere qualcuno. O forse perché qualcuno lo aveva voluto.
Improvvisamente, le pareti della cella ebbero un sussulto: come se fossero state vive, in preda a un brivido, ad un crampo, si contrassero attorno a lui. Il fenomeno lo lasciò stupito, ma non lo turbò particolarmente, tanto che tornò alle sue riflessioni. Certe volte provava a fare il punto della situazione. Isolato dal mondo, la sua unica realtà era quella che lo circondava, il suo mondo iniziava e finiva in quella cella, immobilizzato e senza possibilità di fuga, come l’uomo della caverna di Platone, e intuiva che vi fosse una realtà maggiore che inglobava la sua, una realtà più “reale”, che avrebbe fatto figurare la sua come la dimensione inconscia della vita, sospesa in un limbo di oblio e protetta da quel calore che in seguito non avrebbe più ritrovato, se non in brevi istanti di intenso, estatico piacere; una realtà che arrivava a lui non in forma di ombre, come nella caverna di Platone, ma di suoni, o meglio di rumori, di voci dalle quali cercava di dedurre la forma, il volto, l’identità di coloro che restavano, per lui, gli artefici senza nomi del suo destino, dèi lucreziani distanti, a guardia di quella realtà di cui la sua era probabilmente un infimo lacerto, un tassello insignificante, come dovette apparire all’uomo tutta la sua gloriosa stirpe di fronte alle scoperte di Copernico e Galileo, quando si scoprì che ben altri mondi esistevano oltre alla Terra e che il Sole non esisteva per scaldare solo lei.
Questa volta i crampi furono due, a breve distanza, e più forti del precedente. Si sentì schiacciare, dall’alto in basso, i piedi, le gambe e le braccia. Poco dopo, una terza, una quarta, una quinta raffica di crampi arrivò a comprimergli la testa. La certezza sulla quale aveva finora riposato, la speranza che aveva alimentato quietando a forza le paure, che quella stasi sopportabile di cose, cioè, potesse prolungarsi all’infinito, si sfaldò pezzo per pezzo nel giro di poche ore o pochi minuti – non avrebbe saputo dire, se avesse potuto parlare – insieme al coagulo di sangue e muco che otturava il chiusino: in breve, quella sorta di propoli si disgregò e cadde attraverso il foro del quale intuiva la presenza. Il fluido che per mesi l’aveva sommerso defluì attraverso quel foro, assieme alla pellicola, e per la prima volta la sensazione di non avere più attorno né quell’involucro flessibile, quella muta aderente che l’aveva protetto dal fluido, né il fluido stesso, gli parve peggiore di ciò che aveva passato fino a quel momento. Alle vecchie paure si era abituato: a queste nuove, che lo assalivano con la potenza della tragedia inaspettata e incontrollabile, non sapeva reagire, e restava paralizzato, incapace di muovere un muscolo. Un cataclisma feroce stava distruggendo la cella. Frammenti sempre maggiori delle pareti si staccavano e cadevano, risucchiati dal foro microscopico là in fondo, sospintivi da crampi sempre più forti, che gli stritolavano in morse di dolore la testa e il corpo. I crampi si erano trasformati man mano in convulsioni durature, in spasmi tetanici che lo stringevano come spire di un boa. Gli sembrava che gli occhi, il cuore, lo stomaco e l’intestino dovessero da un momento all’altro schizzargli fuori dal corpo; la testa era compressa verso il fondo della cella, e premeva contro il foro nel quale tutto pareva finire, come in un buco nero, senza più uscirne, o forse uscendo da qualche altra parte governata da uno spazio-tempo alternativo, in quella realtà esterna o in un universo parallelo.
D’improvviso capì: il supplizio ultimo escogitato dal boia sovrano del suo carcere sarebbe stato di farlo passare, spappolandolo, attraverso quel minuscolo foro, a forza di contrazioni e convulsioni. Non un supplizio veloce, quindi, ma lento, crudele, che ormai stava durando da alcune ore. Tutto quel tempo a nutrirlo, a farlo crescere in una gabbia strettissima, come un’oca allevata per il foie gras, aveva avuto come unico scopo l’ingigantire fino all’inimmaginabile le sue sofferenze durante la fuoriuscita. La sua testa continuava a premere contro quel foro, come se tante mani lo stessero spingendo verso il basso, o come se una mano enorme da fuori stesse strizzando la cella come una spugna. Era come far passare un melone attraverso una buca da golf. Lo spasmo attorno a lui accennava a diminuire, anzi, per quanto incredibile, continuava ad aumentare; ed aumentò a tal segno che, inspiegabilmente, inaspettatamente, la buca da golf cedette. Per quanto minima, scoprì che era dotata di un’elasticità sufficiente a farla allargare e a richiudersi attorno alle sue tempie, comprimendogli il cervello e permettendo a tutto il resto del corpo di passare, seppure fatica, un millimetro per volta. Sentì nitidamente il suo cranio deformarsi, disarticolarsi, appiattirsi. Poi fu la volta delle spalle, che si piegarono fino a toccarsi davanti allo sterno. Il suo corpo stava lentamente sparendo dentro quel buco che per mesi aveva supposto essere nient’altro che l’entrata del fluido, e che ora scopriva essere la sua uscita, cacciato e per così dire espulso dai ritmici crampi nei quali ancora le pareti della cella si contorcevano attorno e dietro di lui. Ma anziché finire smembrato come si aspettava, nell’osservanza delle più crudeli esecuzioni medievali e delle leggi più elementari della fisica, scoprì che, attraverso quel restringimento apparentemente impraticabile, veniva incastrato in uno strettissimo canale scuro, viscido, sanguinolento, che proseguiva l’opera di schiacciamento iniziata dal chiusino elastico, attraverso cui era passato ormai gran parte del suo corpo.
Improvvisamente il canale terminò. Sentì un gran freddo, e si mise a tremare. Di colpo la testa non più tenuta sotto pressione e libera di muoversi, gli parve espandersi senza controllo, come il resto del suo corpo. Per la prima volta l’aria entrava dolorosamente nei suoi polmoni e l’atto respiratorio gli venne istintivo e facile, come se l’avesse praticato da sempre. L’ultima cosa che pensò, o la prima, fu che stava andando verso un supplizio ancora peggiore e infinitamente più lungo; forse anche per questo si abbandonò a un lungo, straziante pianto liberatorio.

Di Christian Speranza.

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